Le ore scorrono veloci sul treno per Lhasa. Fuori, immense pianure che si alternano a laghi e montagne dal dolce declivio. Spesso il suolo è ghiacciato e la luce diventa accecante. Dentro, i volti sorridenti delle persone che attendono di conquistare la meta. Bambini addormentati, donne anziane, che pregano sgranando il rosario tibetano dai 108 grani, uomini dal viso segnato dal sole e dal vento e persone che respirano a fatica. Il tragitto prevede l’attraversamento di passi montani intorno ai cinquemila metri di altezza e non è consigliato se si soffre di problemi cardiaci o respiratori. Le carrozze del treno non sono pressurizzate ma ogni sedile è dotato di prese da cui si può fare scorta di ossigeno, per alleviare i disturbi dovuti all’altitudine. Da Pechino a Lhasa ci vogliono quasi due giorni di viaggio, quarantotto ore fuori dal mondo in una dimensione che spinge a osservare e a pensare.
La partenza è alla Beijing West Railway Station. Si passa per le mura di Xian – la città dei guerrieri di terracotta – e per Liaoning, arrivando infine a Xinning, capitale della provincia a nord del Tibet. Il paesaggio desertico è punteggiato ogni tanto da yak, cavalli selvaggi e qualche lingua di neve candida. A cinquemila metri poi, al passo Tanggula, compare come un miraggio il lago Namtsu, che come uno specchio cristallino riflette il cielo azzurro. La costruzione della ferrovia venne iniziata alla fine degli anni Cinquanta da Mao Tse-Tung, ma conclusa nel 1984 nel tratto che collega Xining a Golmud. La parte più difficile da realizzare, quella di collegamento con il Tibet, fu iniziata nel 2001 e terminata nel 2006. Al termine del lungo anche se piacevole viaggio in treno, l’arrivo a Lhasa riempie il cuore di gioia. Sarà per il suo nome, che in tibetano significa “dimora degli dei”, o per il Potala che domina maestoso stagliandosi contro il cielo azzurro, ma qui ci si sente davvero uniti all’Universo. Un tempo Lhasa era una piccola città considerata gioiello di arte e architettura, dove si recavano migliaia di pellegrini per raccogliersi in preghiera davanti agli dei, ai templi e agli altari. Era costituita da due quartieri principali, un piccolo villaggio e antichi palazzi.
Dopo l’invasione cinese sono state fatte modifiche architettoniche e sono stati costruiti edifici moderni, che rompono un po’ l’incanto della città che per tanti anni ha potuto godere dell’energia positiva del Dalai Lama. Dalla sua dimora poteva vegliare sull’intera valle; il palazzo del Potala infatti ha tredici piani e 117 metri di altezza ed è considerato uno dei tesori più splendenti dell’arte asiatica. Nessuno conosce l’esatto numero di stanze da cui è composto ed è sempre stato il cuore del Tibet: centro religioso, sociale e culturale. Dopo un lungo periodo di divieto, attualmente la circoambulazione del palazzo viene nuovamente effettuata dai pellegrini, per cui ha un valore cosmico. E’ infatti l’imitazione dei cicli astrali che assicurano l’armonia del mondo adattandola a quella dell’universo e serve per purificare l’anima.
Un’espressione originale e altamente simbolica dell’arte religiosa tibetana è il Mandala. I monaci costruiscono una complessa struttura di forma geometrica su un piano di legno. Ne delineano i contorni con precisione e poi riempiono le forme con volatile sabbia dai molti colori. La costruzione di un Mandala, secondo la tradizione, serve a diffondere nell’ambiente energia positiva e, al termine della costruzione, viene distrutto a simboleggiare la natura impermanente di ogni cosa. Il profumo di incenso, il rumore dei tamburi rituali e il suono dei mantra recitati con devozione, accompagnano il visitatore nella dimensione religiosa tipica tibetana, che necessita del sovrannaturale mescolato ai sofisticati concetti del buddhismo. Una fede semplice cui nessuno in Tibet vuole rinunciare.
Testo di Federica Giuliani
http://www.latitudeslife.com/2012/05/un-treno-per-lhasa/